Il Tanaro a Masio
fotografie
11 02 2013 > 13 04 2013
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Gli alberi “non hanno voce”,“sono pressappoco paralitici”,“non possono attirare l’attenzione se non per le loro pose”: sono parole di Francis Ponge, giuste come tutte le parole di Francis Ponge, eppure meravigliosamente contraddette dagli alberi di Vittore Fossati. “Non si esce dall’albero con mezzi di albero”, scrive ancora Ponge, e questo ci aiuta forse ad attenuare la contraddizione: nelle immagini di Fossati gli alberi smettono di essere solo alberi proprio per mezzo della fotografia, un mezzo certamente estraneo alla loro natura di non-vedenti. Ma allora vale la pena di rilevare un altro paradosso: se le frasi citate all’inizio non si addicono agli alberi di Fossati, si addicono però ai soggetti di qualsiasi fotografia, se è vero che, come la Medusa, la fotografia ammutolisce e ferma in una posa paralitica chiunque ne incroci lo sguardo. Dove ci portano questi ragionamenti un po’ astrusi? Nel migliore dei casi ci aiutano a capire perché in fotografie che non esiteremmo a definire realistiche gli alberi sembrano capaci di cose che nella realtà non possono fare, come trattenere una nuvola, guadare un fiume o allungarsi per toccare la cima di un consimile o imitarne il disegno. Queste immagini ci riconducono all’origine del mezzo fotografico anche in senso storico. Il fiume, gli alberi e gli arbusti sulla riva e duplicati nell’acqua insieme al cielo, costituiscono uno dei primi temi affrontati dalla “matita della natura”, per usare la celebre espressione di W. H. Fox Talbot. Un tema che ovviamente era stato mutuato dalla pittura. Nel 1844 Talbot ha scritto che la fotografia permette agli edifici, ai pagliai e a qualsiasi altra cosa in grado di riflettere la luce – e quindi anche agli alberi e ai rami secchi – di disegnare la propria raffigurazione e, cosa non meno sorprendente, di farlo con una dovizia di dettagli “che nessun artista si darebbe la pena di copiare fedelmente dal vero”. Continuando per questa strada si può dunque affermare che la fotografia ha qualcosa in comune con gli specchi d’acqua. Da qui, forse, la loro reciproca attrazione. Un’attrazione documentata sin dai calotipi dello stesso Talbot. È lecito chiedersi se nel caso di Fossati non agisca anche il desiderio di assicurare la fotografia digitale alla tradizione analogica, perché dopotutto queste sono immagini realizzate con una piccola macchina digitale da un fotografo che è cresciuto e ha sempre lavorato con la pellicola. E tuttavia i fiumi e gli alberi di Fossati non sono quelli di Robert Adams, come quelli di Adams non sono quelli di P. H. Emerson, e non solo perché il Piemonte non è il Colorado e il Colorado non è il Norfolk inglese. Gli sguardi sono diversi. Diverso è per esempio il modo nel quale questi tre fotografi si servono dei bordi e degli angoli delle inquadrature per definire le immagini e operare sull’immaginazione. È d’altra parte un fatto che certi paesaggi fluviali continuano a presentarsi ai nostri occhi così come si presentavano a quelli dei nostri bisnonni (P. H. Emerson, per restare a lui, nacque nel 1856). A volte basta una deviazione di pochi minuti dalla strada principale per lasciarsi alle spalle il traffico, i muri, le cancellate e i capannoni e scoprire luoghi più essenziali, simili a quelli che Fossati ha trovato a Masio: luoghi non idilliaci, né incontaminati, magari neanche particolarmente belli, ma comunque sospesi in un tempo diverso da quello degli agglomerati urbani e delle vie di comunicazione. Luoghi in cui sentiamo girare le rotelle della natura, anche d’inverno, quando gli animali sono in letargo e il suolo è ghiacciato. È Ponge che proponeva di pensare alla natura come a un orologio “il cui principio è fatto di rotelle che ruotano a velocità assai diverse, benché tutte governate da un unico motore”. In riva al Tanaro l’occhio di Fossati ha raggiunto uno straordinario equilibrio tra attività e passività. Il nitore di queste fotografie è certamente dovuto al controllo delle linee e dei profili, alla loro esecuzione. Ma è proprio dalla cura delle linee e dei profili, dei bordi che separano o confondono i piani e costituiscono per così dire il disegno intrinseco della fotografia – riecco la matita della natura –che emerge e ci viene incontro propagandosi come l’onda attorno al sasso lanciato in un fiume (o al “fiume lanciato in un sasso”) una visione più ampia e stratificata del paesaggio terrestre.
Matteo Terzaghi
Nota Ponge è qui citato nella traduzione di Jacqueline Risset (Il partito preso delle cose, Einaudi 1979), Talbot in quella di Roberto Signorini (Alle origini del fotografico, Clueb 2007). Il “fiume lanciato in un sasso” viene da una poesia di Vanni Bianconi (Ora prima, Casagrande 2008).
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