TOPOGRAFIE
Testo di Gian Franco Ragno – 2017
“Ora, ciò che vedo, attraverso questo “occhio che pensa” e che mi fa aggiungere qualcosa alla foto, è la strada in terra battuta (…), riconosco, con tutto me stesso, i borghi che ho attraversato in occasione di passati viaggi in Ungheria e Romania.”
A scrivere queste parole, con la consueta esattezza, è Roland Barthes – mentre evoca una porzione di un’immagine alle spalle di un violinista ceco fotografato nel 1921 da André Kertész – un passo dell’irrinunciabile lettura de La camera chiara.
Trovo che sia un passo che riesca bene a introdurre il tema delle topografie presentate da Fabio Tasca, ovvero l’attenzione per quei luoghi che ci sembra di aver attraversato, che riconosciamo (“con tutto me stesso”, sottolinea il filosofo francese) ma ai quali non abbiamo mai dato la dignità fotografica. Luoghi che potremmo chiamare “in beetween”, tra due punti rilevanti, e quindi periferici, confinanti con sé stessi.
D’altra parte sono proprio questi i soggetti tra i più amati dal fotografo comasco – ibridi e precari, quasi di un’impossibile definizione: tasselli interscambiabili di una scacchiera, qui basso-comasca, ma idealmente di tutta una regione della pianura padana – testimonianze di cui intuiamo forse la funzione (abitativa, industriale, agricola) ma non intravvediamo tracce di socialità.
Ad accentuare la sensazione di disorientamento, l’orizzonte immobile e imperscrutabile, le strade senza bordo si infilano nella nuda terra – strisce di asfalto che conducono sempre fuori dall’inquadratura. E poi, tra gli elementi marcanti, sotto un uniforme cielo grigio argento, la terra scura e solcata dagli aratri meccanici che funge da fondamenta muta e opaca della composizione.
Più in lontananza, sotto forma di muri di cinta e cancelli, invece, compaiono delle barriere che delimitano il vero confine (noi, gli altri; mio, tuo), luoghi dove la presenza umana è evocata, e, al tempo stesso, sospetta. Occasionalmente delle strutture commerciali: ad esempio, una proprio accanto ad un invisibile cartello stradale comunale. Che paese sarà? Dov’è il confine? Dove finisce un paese e inizia un altro?
La seconda serie, del 2013, più contenuta e di piccole dimensioni, rivela altri aspetti assai interessanti: la sperimentazione tecnica, l’uso di pezzi unici (degli instant film, come un dagherrotipo o un cliché-verre) e la continuità della ricerca di Tasca negli ultimi anni. Qui vediamo un meridione inedito, sul quale non possiamo dilungarci troppo, ma di cui non possiamo accogliere con stupore il sorprendente e lirico abbandonarsi verso la monocromia, le elementari forme architettoniche, i vuoti che compongono le immagini.
Due territori di indagine paralleli e distanti, uno che afferisce alla metropoli, l’altro alla stessa Europa: entrambi rischiarati da una luce zenitale e intensa, senza ombre.
Come bilancio complessivo i due progetti e l’insieme dell’opera trascendono però la pura documentazione. In primo luogo per la preponderanza data alle forme e alle tonalità che costruiscono l’immagine – quasi a richiamarsi alle scuole formali della fotografia precedenti le ultime generazioni (come un’eco di Giuseppe Cavalli, di Paolo Monti). E in secondo luogo, a un successivo livello di lettura, una sorta di svelamento rispetto alla rappresentazione della realtà di cui la fotografia fa parte.
Tasca, come per un’immagine del precedente lavoro Litoranee sparse, dove fissava la palizzata davanti al lungolago di Como, appare consapevole che stiamo parlando in ogni caso, di quinte tra noi e la realtà e dei limiti intrinsechi della rappresentazione: nel caso della strada di terra battuta di Barthes, nella fotografia riconosciamo e proiettiamo una parte della nostra esperienza – di noi stessi, nel flusso di costruzione di un’identità, ovvero quel concetto di sé sempre in viaggio, anche in questi luoghi caratterizzati da un’impressionante immobilità.
|
|